Frequentano l’università, hanno 20 anni e una vita ricca di sogni, progetti e passioni. E il teatro è una di queste. Federico Albert, Francesca Romualdi e Francesca Sorice sono i registi e dello spettacolo “Espulsi dall’Alfieri”: storie di discriminazione, persecuzione e resilienza, creato lo scorso anno al Liceo classico V. Alfieri, di cui erano studenti, per il Giorno della Memoria e trasformato questo gennaio in un nuovo progetto: meno memoriale e più artistico. Più musica, danza, dialoghi.
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Quando è nata la vostra passione?
Francesca S. A dieci anni la mia mamma mi ha iscritto a un corso di teatro, per aiutarmi a combattere la timidezza. E poi poco per volta la recitazione si è trasformata in vera passione. La timidezza ha lasciato il posto all’amore per il palcoscenico e per tutto ciò che il teatro rappresenta.
Federico. Io ho seguito un corso a scuola, con la compagnia Genovese Beltramo, ed è stato amore a prima vista. Il teatro mi ha catturato e dopo la scuola ho proseguito nello studio della recitazione e capita che mi cimenti anche nella regia, come in questo caso.
Francesca R. Io anche ho iniziato a scuola, come Federico. Ma per me la passione è dietro il palco. Chissà, forse l’ho ereditata da mio nonno, scenografo al Teatro Regio. Mi piace stare dietro le quinte, mi piace la regia, la costruzione di uno spettacolo, la cura dei dettagli, la scelta del miglior linguaggio, dell’espressione.
Cosa vi ha insegnato e cosa vi insegna il teatro?
Francesca S. A combattere la timidezza e a cercare dentro di me, ogni volta, una persona che non è quella che sono. Sì, a scovare i personaggi che vivono in me.
Federico. Mi ha insegnato l’organizzazione del tempo, lo dico anche se so che i miei fratelli leggendomi si metteranno a ridere. Ma soprattutto a capire gli altri, anche se diversi da me, interpretare un personaggio significa cercare ciò che mi accomuna a lui, comprenderlo, comprendere le sue diversità e farle mie.
Francesca R. Il teatro mi aiuta a sentirmi me stessa, a mettere davanti a tutti chi sono, senza fingere. Il teatro è il mio spazio, in cui porto il cuore innanzitutto.
E quando salite sul palco cosa provate?
Federico. Prima di iniziare c’è un attimo di ansia. Respiri ed espiri e poi tutto parte, in un soffio, in un lampo. E allora ci sei solo più tu, lì. È bello vedere il pubblico davanti, ti carica, di trasmette energia e gioia.
Francesca S. Quando sei sul palco ti senti potente e hai la sensazione di poter conquistare il mondo e il tuo mondo in quel momento è la scena. È davvero bellissimo.
La storia degli “Espulsi dall’Alfieri” parla di tempi e temi lontani da voi. Storie dei vostri bisnonni. Come l’avete fatta vostra e come avete costruito lo spettacolo?
A scuola abbiamo trovato diversi documenti che raccontavano di chi, durante gli anni del fascismo, è stato allontanato dall’Alfieri: studenti e studentesse ma anche professori. Immedesimarsi in loro è stato facile, spontaneo. Ragazzi e ragazze come noi, che avevano attraversato i nostri stessi corridoi, si erano seduti nei nostri banchi ed è stato spontaneo per tutti, crediamo, chiedersi come avremmo reagito se fosse successo a noi, ai nostri compagni, ai nostri insegnanti. Sono stati espulsi perché diversi. Oggi tutti i ragazzi cercano di essere diversi, in parte. A quel tempo essere diverso poteva costarti la vita. Quest’anno poi abbiamo avuto fra le mani le lettere di alcune delle persone espulse e il bellissimo memoriale di Elena Recanati. Quella è stata una ricchezza immensa, sia per lo spettacolo che per noi. Non erano solo più nomi e date. Erano parole, storie, vita vera di persone che avevano provato sulla propria pelle le leggi razziali.
Lo spettacolo quest’anno è stato quindi ampliato, rimaneggiato: nuovi attori, nuove musiche, nuovi testi, è stato un lavoro difficile?
Sì, il testo l’abbiamo rimaneggiato con un lavoro di alcuni mesi. La scena degli Ovazza l’ha riscritta Federico mentre quella di Elena Recanati e Guido Foa è nata sul tavolino di un bar che frequentavamo assiduamente lo scorso anno, durante la maturità. Quella di Enrico Avigdor l’abbiamo costruita addosso al ragazzo che ha interpretato la parte. Ed è stato facile. Adriano ci ha stregato la prima volta che l’abbiamo sentito leggere una pagina di un libro ad alta voce. Ma alla fine abbiamo avuto l’aiuto di tutti, ciascuno ha portato un pezzetto, un’idea, uno spunto. Ecco la forza di questo spettacolo.
Sì, perché avete coinvolto i ragazzi dell’Alfieri, anche giovanissimi. È bello trasmettere una passione?
In realtà è bello vedere che un tuo progetto viene accolto e fatto proprio anche da altri. Grazie al passa parola all’interno della scuola sono arrivati nuovi attori, una ballerina, nuove musiche, nuovi musicisti. E con loro nuove energie e nuove idee tutte per il nostro Espulsi dall’Alfieri. Ci siamo concentrati meno sui testi e più sul lato artistico. Le prove sono state influenzate dai ritmi della scuola, dalla disponibilità di orari data dal liceo e dai professori. Ma è andato bene così. Gli aspetti tecnici legati alla musica li ha seguiti Pietro Battaglini ma davvero tutti hanno portato il proprio contributo. Ora molti ci hanno chiesto di continuare, di portare lo spettacolo ancora in giro. Chissà, magari riusciremo a farlo.
Vedete il teatro nel vostro futuro?
Speriamo proprio di sì. Chissà , qualche volta qualcuno di noi sogna di poter vivere di teatro ma non è facile, per questo facciamo anche altro. Ma sicuramente il teatro è una parte di vita che non lasceremo andare.
L’emozione più grande che in questi anni il teatro vi ha regalato?
Sicuramente questo spettacolo ci ha regalato tantissimo e per diversi motivi. Recitare all’Afieri è stato un po’ come tornare a casa. Era la nostra scuola, con amici e vecchi compagni, e gli applausi finali ce l’hanno dimostrato. E poi portavamo un nostro progetto, tutto nostro. Costruito, pensato e realizzato da noi. Dalla lettura dei documenti e delle lettere alla messa in scena, dalla stesura dei testi alla scelta delle musiche. Abbiamo cercato di dare voce a quella parte di esistenza, di quegli anni, che era più vicina a noi: la vita di tutti i giorni. Speriamo di esserci riusciti.