Il vetro e l’argento, i tagli delle lastre in pietra dei marciapiedi, i sassi delle isole greche, gli smalti, le ossidazioni, il mondo creativo di Francesca Brinatti, architetta che da dieci anni realizza specchi, è un universo di ispirazioni e percezioni che partono dalla natura e compongono piccoli o grandi universi.
Tutto inizia quando Francesca, una decina di anni fa, rileva un laboratorio di specchi da Anna Antolisei, il cui nonno, ingegnere chimico, aveva aperto nel dopoguerra una vetreria prestigiosa che lavorava principalmente per le soprintendenze piemontesi. Si occupava di argentatura di specchi anticati. Uno diverso dall’altro, pezzi unici.
Francesca riprende in parte il lavoro della Vetreria Antolisei e crea Làbanto: laboratorio, Antolisei, Torino; il laboratorio si trova in un interno cortile di via Vanchiglia, il quartiere delle botteghe artigiane; un luogo magico, dopotutto gli specchi sono portatori di magie.
Lo specchio è l’incontro dell’argento con il vetro, è il nostro riflesso, è una porta sull’oltre, è lo spazio della fantasia e dell’immaginazione, è la restituzione dei nostri desideri, come ricorda la strega matrigna di Biancaneve: “Specchio specchio delle mie brame chi è la più bella del reame?”.
Con Labanto inizia la tua nuova vita, artigiana dello specchio?
Sì, è stato un salto nel vuoto. Guardando indietro mi chiedo come ho fatto, sicuramente con un po’ di paura, incoscienza e tanta, tantissima curiosità.
Sono partita da zero: ho imparato molto, grazie al lavoro con uno degli operai del vecchio laboratorio, ovviamente ho imparato innanzitutto a fare gli specchi.
Dopo un anno di rodaggio, studio e tanta gavetta, la bottega ha preso avvio.
All’inizio solo specchi anticati, lasciavo cadere la polvere per l’ossidazione sulla lastra argentata e l’ossidazione rimaneva puntuale. Poi, dopo aver compreso la risposta della materia, ho iniziato un nuovo percorso.
Lo specchio è una pellicola d’argento che si aggrappa al vetro e reagisce in modo differente a seconda del calore, dell’umidità, delle condizioni climatiche che ci sono in laboratorio e fuori. Le reazioni che nascono in un giorno di pioggia sono differenti da quelle di un giorno di sole.
Ho trasformato la polvere in liquido e rovesciandolo l’ossidazione è diventata più forte, l’argento che cola crea macchie che ricordano la natura, il liquido crea disegni, tratti e segni.
Studiare lo specchio significa imparare a conoscerlo, la contemplazione nello specchio è un tema che è stato indagato nell’arte, nella filosofia, nella psicologia. Io ho cerco di mettere il mio sguardo da architetta: quando guardo uno specchio non vedo la mia immagine, ma una finestra su un’altra realtà. Una cornice su ciò che c’è dietro, un riflesso.
Negli anni al lavoro con l’argentatura ho aggiunto quello con le ossidazioni, con loro gioco, studio, osservo il movimento, la liquidità di ciò che verso, ho iniziato a ridurre la massa, per creare un tratto, un segno, un disegno, che racconta sullo specchio. Vedo ciò che intuisco, ma ciascuno di noi percepisce qualche cosa di diverso. L’ossidazione è la parte di lavoro che più mi emoziona, aspetto la sorpresa di ciò che apparirà. Dopo due o tre giorni le cose cambiano, solo quando chiudo con le stratificazioni ho il risultato finale.
Il mio lavoro è legato alla terra e alla natura, quando osservo la creazione delle macchie penso alla stratificazione della terra, degli elementi che lo compongono, alle ere geologiche. C’è l’argento ma ci sono anche altri materiali, il ferro, la grafite, la calce: la materia che tutto crea.
Ora lavoro con il colore, minimale, creo produzioni più essenziali, meno ossidate. Scelgo i colori seguendo le emozioni, non sono un elemento di decoro, devono comunicarmi qualcosa.
Lo specchio è uno spazio in cui il colore, colate di smalto, trova la propria forma. Il primo colore che ho scelto è stato il rosso. Un colore importante.
Poi è arrivato l’oro, che ha una rifrazione della luce potente; poi il bianco. Attraverso questi due colori mi sono ritrovata nel cosmo: il sole e la luna.
Comunque sia, come in un processo alchemico, è sempre lo specchio che guida e comanda.
Chi sono i tuoi clienti?
Lavoro molto con imprese ed architetti, assieme studiamo intere pareti di arredo o piccoli dettagli. Grazie alla stampa digitale posso ricreare sullo specchio disegni, foto, immagini, questa tecnica negli ambienti grossi è molto interessante, permette di realizzare vere e proprie installazioni.
Ho lavorato con lo Studio lamatilde con cui ho realizzato progetti per locali pubblici: da Villa Crespi a Edit Torino e Milano, Japs’, e il nuovo ristorante delle Gallerie d’ Italia, che aprirà a gennaio.
Poi con Pavia e Pavia ho seguito committenti privati, abitazioni importanti; con la Galleria A. Muse di Paola Tournon e Nordic Things di Maria Strachini.
Poi ci sono le piccole e preziose collaborazioni con artiste: con Cristina Mandelli un lavoro a quattro mani che abbiamo presentato alla Conservatoria del Pastis. Il rovesciamento dell’argento sulla lastra di vetro lasciava delle onde di vuoto in cui lei inseriva le sue opere. Con Stefania Cattelan, architetto e artista, abbiamo lavorato con le stampe su film trasparenti. E nuove collaborazioni in arrivo.
Poi ho una parte di produzione dedicata alla mia collezione privata, in cui sperimento, immagino e racconto.
Amo quando gli amici e i clienti, anche solo curiosi di vedere lo spazio, passano in laboratorio, il mio specchio è un prodotto da vedere e capire. Durante il Covid ho lavorato molto, le persone hanno vissuto la casa più di un tempo e mi hanno cercato.
Quali le tue fonti di ispirazione?
I luoghi in cui vado o ciò che vedo: tempo fa avevo realizzato una piccola produzione di specchi facendomi ispirare dalle lastre dei marciapiedi rotte, quelle spaccature seguono le venature e le fragilità della pietra.
La scorsa estate sono stata su un’isola in cui si sentiva forte la forza della natura: tanti colori, materiali e spazi. Il bianco della calce, l’arancione dell’argilla, l’oro dello zolfo, e tanti sassi. Quei sassi mi hanno ispirato, li ho portati a casa e ora sto realizzando piccoli specchi che contengono quei sassi.
Poi c’è il mio spazio di lavoro, sono in un fondo cortile e quando il portone di Via Vanchiglia si chiude, lasciando fuori i rumori della via, sono in un altro mondo, c’è un’atmosfera particolare, si sentono solo i suoni dei cortili.
In inverno gelo e in estate caldo torrido: le botteghe sono così, cambiano le stagioni, le temperature, e con loro gli specchi e l’ispirazione.
Quanto impieghi a realizzare uno specchio?
Sei o sette ore, divise e frammentate in parecchi giorni. Non tengo in magazzino vetri, me li faccio portare dal vetraio, tutti diversi, a progettazione, della misura esatta e poi lavoro il vetro piano.
Non posso realizzare più di 4 mq al giorno, altrimenti la stanza in cui argento si surriscalda e il processo fallisce.
Si inizia con la sgrassatura e pulizia del vetro, poi c’è l’argentatura, l’ossidazione, la chiusura del lavoro. Ogni fase richiede tempo di lavorazione e tempo di riposo. Non è una catena di montaggio, è un’attesa.
Talvolta non esce ciò che penso, se posso torno indietro, se non posso ricomincio e se i tempi sono stretti per la consegna diventa un problema.
È l’unicità di ciò che faccio…
Le opportunità e le idee nuove sono arrivate dallo studio, dalla sperimentazione, anche dagli sbagli.
Ho iniziato con gli specchi anticati, poi ho cambiato, senza la sperimentazione avrei perso la parte progettuale, la produzione, che è poi ciò che più mi piace: amo seguire il processo dall’inizio alla fine.
Partire dal vetro e dare avvio alla magia.
Il futuro chissà cosa mi porterà.
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