Da “La prima cosa bella” al “Capitale Umano”, da “Happy Family” a “Fathers and daughters”, da “Nessuno si salva da solo” a “In nome del figlio”, ecco solo alcuni dei film su cui ha lavorato Gaia Bussolati, da quasi venti a contatto con quelli che noi italiani erroneamente definiamo “effetti speciali”. Le donne che fanno il suo mestiere si contano sulle dita di una mano in Italia, e lei racconta il perché.
Sarà perché lavora con gli effetti digitali e di trucchi se ne intende, sarà perché il circo è la sua palestra quotidiana ma Gaia, 44 anni, sembra una ragazzina. Poi le parli, ti immergi nel suo mondo fatto di magia e rigore, creatività e disciplina, pixel e grandi schermi, tanta palestra e voglia di imparare sempre, di spingersi oltre il limite per dare corpo a immagini che sono “la materia di cui sono fatti i sogni” e scopri una professionista che ha fatto del virtuale la sua ragione di vita. Perché, come le disse un professore danese conosciuto in Germania durante l’Erasmus ad architettura: “Tu non hai attaccamento alla realtà. Lavoreresti bene a Disneyland”. Ci aveva visto giusto. Da oltre sedici anni Gaia lavora in EDI Effetti Digitali Italiani, la più “vecchia” società italiana che si occupa di post produzione video: dalla pubblicità al cinema.

Ma partiamo dall’inizio.
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Da dove arriva questa passione per i mondi irreali, per la realtà virtuale?
Da molto lontano. Dal caso, dalle convergenze della vita, dalla formazione, dagli incontri e forse anche un po’ dal mio DNA. Basti pensare che dopo il liceo volevo fare matematica. Poi ho tentato il test di architettura: è andato molto bene. Allora ho pensato che forse quella fosse la strada giusta. Architettura mi sembrava una facoltà divertente: mi vedevo a lavorare nel mondo del design. Nel corso degli anni universitari, che sono stati parecchi, ho fatto diverse cose. Una volta finiti gli esami sono stata borsista per il Politecnico, tirocinante in studi di architettura, ho insegnato programmazione e soprattutto ho scoperto il mondo del cinema. Ho lavorato come aiuto scenografa sul film di Chiambretti (ogni lasciata è persa) e ho capito che il cinema mi piaceva tantissimo. Ma ho anche compreso che il lavoro della scenografa era faticosissimo: dalle cinque del mattino a mezzanotte. Non faceva per me. Lì ho conosciuto chi si occupava di effetti visivi e ho ripensato al professore danese incontrato anni prima. Così ho cambiato il titolo della tesi: da quella sulle lamiere grecate che stavo preparando, a: “ Illusione e meraviglia, l’irreale progettabile”. E mi sono tuffata a capofitto in questo nuovo universo. Un po’ da autodidatta un po’ da appassionata.
Autodidatta, sembra il filo conduttore di tutta la tua carriera?
In parte sì. Sempre in Germania avevo seguito qualche lezione di AutoCad (un software che permette di realizzare progetti in 2D e 3D). E lì mi sono resa conto che la progettazione degli spazi mi veniva spontanea. La rappresentazione dei volumi nello spazio mi sembrava una cosa semplice: un po’ per senso estetico, un po’ per l’abitudine alla composizione, un po’ per l’attitudine istintiva all’interpretazione del mondo attraverso la creazione di immagini. Insomma, mi sentivo a casa in questi mondi fatti di spazi, volumi, immagini. Lavoravo intanto alla biblioteca multimediale della Fondazione Enrico Mattei dove potevo anche studiare e approfondire i miei interessi. Poi al Future Film Festival di Bologna ho conosciuto quello che sarebbe diventato il mio capo. Ho iniziato con uno stage ad agosto e poi non me ne sono più andata. Sono in EDI da sedici anni, praticamente da quando è nata la società. Ho preso tre mesi sabbatici per laurearmi e per il resto questa è la mia casa, il mio piccolo grande regno, luogo di incontri e scontri, di crescita e insegnamento, di lavoro e passione.
In cosa consiste il tuo lavoro?
Ho fatto veramente tutto e il contrario di tutto. Dalla modellazione 3D all’ animazione, dal render al compositing: dal 2D al 3D per molti anni. Cioè a dire la ricomposizione di elementi provenienti da fonti differenti in un’unica immagine, come se facessero parte di quell’immagine già in partenza. Ma davvero quando dico tutto significa che facevo tutto: rispondevo al telefono, andavo sul set, facevo le consegne, portavo il caffè, seguivo tutta la catena della post produzione di cinema e pubblicità a 360 gradi. Una grandissima palestra. Poi mi sono allontanata dalla pubblicità, dove bisogna essere più diplomatici e ho iniziato a seguire di più la supervisione del cinema, principalmente italiano. Per citarne qualcuno: “La febbre”di A. D’Alatri, “Happy Family” di G. Salvatores, “La prima cosa bella” e “Il capitale umano” di P. Virzí. E lì ho scoperto la color correction cioè la correzione di ogni singola immagine per rendere il bilanciamento, la temperatura, la luminosità del colore perfetta. Per un film di cui dovevamo fare integralmente la color, “I più grandi di tutti” di C. Virzí, ci siamo affidati a un freelance francese. Terminato il lavoro, dopo che gli avevamo chiesto per la terza volta alcune correzioni, lui mi ha suggerito di occuparmene io. E così è stato. Ho provato, studiato, imparato e mi è piaciuto tantissimo. Ora ho messo su un reparto di due sale e mezzo con due colorist a tempo pieno e un portfolio di freelance colorist. E’ un ramo in forte crescita e mi piacerebbe svilupparlo ancora di più. Io sempre di più faccio la cacciatrice di errori: la quality controller. Supervisiono il lavoro degli altri e formo giovani che magari domani andranno altrove. Fa parte del mio ruolo e mi piace molto. Il nostro è un lavoro sartoriale, cucito su misura per ogni cliente. Mi capita di vedere e rivedere una scena anche 50 – 100 volte e ogni volta individuo errori diversi, piccole sbavature, inesattezze, che forse noto solo io. Ma voglio siano perfette, voglio siano come l’immagine che ho nella mente.
Se pensi agli effetti digitali cosa senti?
Un mondo sconosciuto, il regno dell’incognita, un universo fragile e fantastico. Non sai mai quanto puoi spingerti e osare nel magico, nella costruzione di una realtà che altro non è che irrealtà. Quando ero bambina il tenerissimo ET di Spielberg mi faceva impazzire. Ora mi fa sorridere, ne vedo tutta la fragilità. Poi è arrivato Gollum del “Signore degli Anelli”, il primo umanoide costruito integralmente in digitale. Le espressioni umane sono però difficilissime da rendere e se lo guardi da vicino ti accorgi che non è reale. Le tecniche si affinano sempre più ma anche il gusto e la capacità di cogliere l’errore degli spettatori.
Non hai mai pensato di andare via, all’estero?
Sì, qualche volta, soprattutto all’inizio. A Londra, Parigi, Los Angeles: città in cui questo lavoro era sicuramente molto avanti. Ma poi, un po’ perché il software su cui operavo qui era molto “nostro”, e avevo timore di non essere all’altezza di un lavoro “altrove”, e un po’ perché sentivo storie di persone che erano andate via, magari a lavorare per grosse agenzie, e finivano a occuparsi di piccoli particolari, che so, la correzione dei riflessi degli occhi, ho desistito. Il mio lavoro è sempre stato molto dinamico: dal compositing al set, avevo una visione d’insieme di tutto il progetto. Ora non avrei più voglia di partire. Certo devo pensare a un piano B. Il mio non è un lavoro per vecchi. L’occhio allenato con il passare degli anni viene meno. Ora ci sono ragazzini che lavorano quasi gratis. Certo non hanno l’esperienza e la visione che può avere una persona che mastica effetti visivi da quasi vent’anni.
Cosa ti ha appassionato del tuo lavoro, e in cosa ti ha vincolato?
Una grandissima soddisfazione personale. Sapere che ciò che ho fatto viene visto anche dagli altri è emozionante. E poi negli anni ci sono stati lavori che ci hanno regalato moltissimo. Quando ho lavorato su un cortometraggio di Terry Gilliam, regista, scrittore, animatore ed attore, per me un vero mito, ho capito di aver toccato l’apice. Dopo il lavoro con Gilliam ho lasciato il compositing e mi sono dedicata ad altro. Recentemente abbiamo lavorato una scena di una serie americana, “American Gods”, che era stata prima assegnata a una società straniera. Avevano rifiutato il lavoro per mancanza di tempo. E così sono venuti da noi. Il tempo era pochissimo, in effetti, ma si sa, gli italiani alla fine se la cavano sempre. E così è stato: una sfida immensa ma anche un gran risultato. Io amo mettere le mani in pasta, lavorare sui software, avere come riuscita l’immagine che avevo in mente. Sapere che ci sono persone che attendono il mio lavoro, l’adrenalina della consegna, il lavoro di squadra. Mi ha vincolato? Partendo dal presupposto che la vita è fatta di scelte consapevoli e che tutto non si può fare o avere e che amo immensamente ciò che faccio; sì, questo lavoro mi ha anche tolto molto. Mi ha tolto tempo, amici, affetti, la possibilità di avere dei figli. Quello degli effetti visivi non è un mondo per donne. Sai quando entri in ufficio ma non sai quando esci: alle 9, alle 10 di sera; magari alle 2 del mattino. Devi essere libero di andare e partire, di disporre della tua vita senza dover rendere conto a nessuno. E lo fai, giorno dopo giorno, anno dopo anno, perché la passione è più forte della fatica. Arriva però un giorno in cui osservi dietro di te ciò a cui hai rinunciato. Senza rimpianti. Lo vedi e basta.
Cosa consiglieresti a un giovane che vuole iniziare questo lavoro?
Di formasi, seguire corsi, ce ne sono diversi molto buoni. Poi di essere umile, paziente, entusiasta. Capire che le cose si costruiscono un passo alla volta, in tanti anni di lavoro. E che magari si parte con un’idea, una passione che muterà con il passare del tempo. Gli anni portano magari a calcare altre strade. E’ bello cambiare, imparare cose nuove, mettersi in discussione. E poi mettere tanta tanta passione in quello che si fa, se così è gli orari non peseranno, le rinunce, le fatiche, le delusioni; quelli che vedo andare avanti oggi sono giovani guidati dal fuoco sacro della passione.
Infine, cosa vedi nel futuro, del digitale e tuo? Saranno ancora legati?
Le previsioni dicono tutto e il contrario di tutto. Sia su di me che sugli effetti visivi. Si è pensato a un cinema in cui non si sarebbe girato più nulla per creare tutto in digitale. Non credo sarà mai così. La gente vuole contenuti, il tripudio di effetti visivi non durerà a lungo. Il cinema d’autore, indipendente, continuerà a esistere. Si continuerà a girare dal vero e poi a modificare. Quando è arrivato il 3D sembrava che ogni film andasse visto con quei buffi occhialini per poterlo assaporare meglio. Così non è stato. Il solo film che davvero aveva un senso visto in 3D, perché aveva un mondo costruito per lui è stato “Avatar”. Per girarlo Cameron ha sviluppato una tecnologia apposta: una macchina da presa stereoscopica, impiegando quasi 10 anni a ultimare il film, in parte girato, in parte CGI. Ora il cinema ci offre film in 4k, 8k, definizioni altissime, in cui è possibile vedere un granello di polvere sospeso nell’aria. Chissà, forse ci stancheremo anche di questa scorpacciata di pixel.
Il mio futuro cosa sarà? Per ora mi dedico al circo, che mi piace, mi aiuta ad allenare la concentrazione scaricando la testa. Lavoro molto con Quattrox4: un’associazione che attraverso la passione e la pratica del circo vuole creare contaminazione fra linguaggi differenti dello spettacolo, con loro mi piacerebbe collaborare anche in vesti diverse. E poi riavvicinarmi alla natura, riappropriarmi di tempi più umani e magari aprire un allevamento di cani. Chissa! Dopotutto, come diciamo in EDI “Non c’è mai un solo colore di una storia”.