Benedetta Morucci, un po’ toscana e un po’ friulana, cresciuta in Veneto e abruzzese di adozione, dopo una laurea in industrial design e dieci anni di lavoro nell’industria della moda ha deciso di cambiare esistenza.
Abita ad Anversa degli Abruzzi, nella Valle del Sagittario, dove lavora per ridare vita a una tradizione tessile diversamente destinata a estinguersi.
Crea e segue passo passo la sua filiera produttiva, tutta italiana e controllata, che inizia dall’allevatore e finisce con il venditore. Parte dal gregge e arriva alla calza, alla sciarpa, alla stola, al filato.
Per lei sostenibilità non è impatto zero, ma produrre con il minor danno possibile.
Benedetta, raccontaci come è nato il tuo progetto
L’industria della moda, dietro lo scintillio apparente, è un tritacarne: macina ritmi e prodotti non umani. Non è un’impresa sostenibile e dopo dieci anni ho sentito che non era un mondo di cui volevo ancora fare parte. L’insofferenza e la fatica sul lavoro si ripercuotevano anche sul fisico, così ho deciso di cambiare vita e strada.
Mi sono rivolta a un’amica fraterna, conosciuta ai tempi dell’università, Viola Marcelli. I suoi genitori hanno un bio agriturismo, La porta dei Parchi, avevano pecore per produzione casearia, la cui lana non veniva utilizzata.
Ogni anno in Italia si stima vengano buttate 9000 tonnellate di lana. Questa cifra non tiene conto di tutti coloro che smaltiscono la lana illegalmente sotterrandola o bruciandola, o che non la smaltiscono proprio, tenendola nei fienili o nei magazzini, perché non possono permettersi di pagare i costi di smaltimento in inceneritore.
Mi sono messa a studiare per un anno e mezzo, il mio obiettivo era quello di riportare la lana italiana, quasi sempre scartata, nella nostra industria.
Oltre a studiare ho messo le mani in pasta, partendo dal gregge dell’agriturismo: un gregge di pecore merinizzate, pecore da cui parte il ceppo originario da cui deriva la lana merinos.
Tutte le lane si possono utilizzare, non tutte sono adatte all’abbigliamento; possono essere impiegate nell’arredo, nell’agricoltura o nell’edilizia.
Dopo un anno e mezzo di studio e lavoro ho scritto un progetto e partecipato a un bando della Fondazione Garrone, ho vinto il secondo premio.
Da lì nasce Lamantera…
Sì, il nome Mantera richiama l’antica arte di lavorazione della lana. Nel patrimonio aquilano ricorda la produzione del panno pastore o mantella di lana cotta, impermeabile al caldo e al freddo: la lana è un ottimo isolante e proteggeva i pastori nelle lunghe giornate al pascolo, sia in estate che in inverno.
Pensiamo che ancora negli anni Ottanta la lana appena tosata di razze merinizzate, come le abruzzesi (sopravissana o gentile di Puglia), aveva un valore di mercato di 2,50 euro al chilo, ora non raggiunge i 50 centesimi.
Lamantera non ha solo un obiettivo commerciale ma è un’operazione di valorizzazione territoriale che vuole salvare la cultura, la storia, i saperi legati agli antichi mestieri; è un progetto di didattica ambientale, un programma di valorizzazione turistica, una risorsa per la rivitalizzazione di aree marginali e montane all’insegna della sostenibilità. Lamantera si inserisce in questa scia offrendo prodotti finiti in pura lana vergine, biologica, naturalmente colorata, insieme alla sua storia, alla sua cultura.
Sostenere l’economia della lana significa rallentare la regressione dell’allevamento ovino.
Raccontaci del tuo lavoro
Seguo ogni passaggio, dal gregge alla filatura fino alla tessitura.
Partecipo alla tosatura, alla cernita della lana migliore, separo le parti sporche dal vello, che può essere utilizzato per i filati. Da noi le pecore vengono tosate a mano, senza essere legate. Ricordo sempre che la tosatura va fatta, serve alle pecore per togliere parassiti e alleggerirle. La tosatura avviene da metà aprile a fine giugno, quando arriva il caldo.
L’allevamento delle pecore che utilizzo per la produzione è a pascolo e biologico, credo di essere la sola in Italia a selezionare così le lane. Oltre alle pecore dell’agriturismo con cui tutto è partito ora ho trovato altri due allevatori.
La mia filiera è tutta italiana: il lavaggio della lana avviene a Biella, il solo luogo in Italia in cui grazie una forte tradizione e al lavoro per grosse aziende come Zegna e Loro Piana c’è ancora questo servizio. Sempre a Biella faccio la tintura naturale in fiocco.
Se non ci fosse il distretto del biellese dovrei andare in Slovenia o in Cina.
Poi la lana passa al lanificio Paoletti, che conosco da tempo, in provincia di Treviso. Sempre in Veneto ho trovato chi realizza mantelle e stole.
Nel pratese producono la maglieria e a Brescia le calze.
I miei prodotti non sono economici, li vendo a prezzi medi, ma sono tutti italiani.
Credo sia importante che le persone comprendano il valore che c’è dietro un prodotto interamente realizzato in Italia.
Ho finalmente ultimato tutti i test e quest’anno parto con la prima produzione. Ci sono quattro negozi che vendono le mie produzioni e ora iniziano a contattarmi aziende B2B, interessate al filato o al tessuto.
Il mio sogno resta quello di arrivare direttamente ai lanifici e poter vendere il fiocco, ancora da filare, così da poter aiutare più allevatori. Un passo alla volta.
È difficile trovare produttori disposti ad ascoltarmi, a capire il mio progetto e a vedere la lana. Chi accetta di ascoltarmi poi apprezza il mio prodotto.
Alla luce di questo lavoro, sei soddisfatta?
Molto. Sono felice quando vedo la gioia negli occhi degli allevatori a cui porto calzettoni e cappelli prodotti con le loro lane.
Sono felice quando mi contattano aziende che lavorano prestando attenzione alla sostenibilità, sia sul tessile che sull’abbigliamento, per collaborare.
Sono felice del mio qui e ora, della vita in Abruzzo, la felicità per me ora è un fiocco di lana.
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