Di Barbara parlano le immagini più delle parole.
Architetta e fotografa, ha vissuto e lavorato fra l’Irlanda e l’Italia, scattando in giro per il mondo, dall’Australia agli Stati Uniti. Nel suo nome, Barbara, uno spirito nomade e viaggiatore.
Ha iniziato il suo lavoro a Dublino, nello studio del fotografo di architettura Gerry O’Leary, dove ha lavorato per tre anni, per poi rientrare in Italia.
“Amo l’Italia, la patria del bello, un Paese in cui lavorare non è sempre facile ma in cui è magnifico vivere. Talvolta mi sento straniera in patria, anche se so che le mie radici mi hanno resa ciò che sono. Amo l’Italia perché posso andare fuori – racconta – Dublino mi ha dato tantissimo, ciò che sono oggi lo devo all’Irlanda, un paese che mi ha regalato chances e opportunità che non avrei avuto rimanendo a casa. Quando sono arrivata a Dublino, nel 202, ho trovato un mondo possibilista, in crescita ed espansione. C’era forte una mentalità di supporto e solidarietà, una competitività che ti portava a collaborare con i colleghi. Gerry mi ha accolto, cresciuto, insegnato un mestiere, gli devo moltissimo”.
Barbara, quanto i tuoi studi di architettura influiscono sul tuo lavoro?
Molto, sono stati la molla che mi ha fatto innamorare della fotografia. Spesso i fotografi nelle interviste raccontano di essere nati con la macchina foto in mano. Per me, nonostante abbia un papà appassionato di foto, con macchine, camera oscura, e tutto l’armamentario, non è stato così.
Ho fatto architettura un po’ come ripiego, spronata dai miei genitori che prediligevano per me una laurea “classica”, niente Dams o Accademia, come avrei voluto. Da bambina ho sempre disegnato, senza fantasia, riproducevo ciò che vedevo.
Alla fine, tutto sommato, è stata una buona scelta, studiando architettura mi sono innamorata della rappresentazione dell’architettura, e dunque della fotografia, che è un mezzo per trasmettere la bellezza che vedi agli altri.
Io inseguo la bellezza. Si può vedere o cogliere una bellezza in un’architettura e trasmetterla con le parole o con le immagini, sicuramente una foto è più immediata. Mi piace, attraverso i miei scatti, toccare la pancia delle persone, arrivare al cuore ed emozionare.
Ma per arrivare a questo bisogna conoscere la tecnica, capire la luce, l’angolazione, sapere dove verrà utilizzata una foto.
E tutto questo apprendimento lo devo all’Irlanda e alle infinite possibilità che mi ha offerto.
Dopo essere stata assunta da Gerry sono entrata a far parte dell’associazione fotografi professionisti irlandesi, che faceva una cosa magnifica. Ogni mese si trovavano per valutare il lavoro di tanti colleghi, presentavi le tue foto e loro ti insegnavano a leggerle, a conoscere la fotografia, ad approfondire la parte tecnica e quella emozionale.
Ho vinto anche il premio Irish Professional Photographer of the Year IPPA 2005/06, con grande sorpresa. Penso sia stato perché avevo un occhio diverso rispetto ai fotografi irlandesi.
Ora quando vado a una mostra so capire ciò che funziona e ciò che non funziona. Conosco le regole, che si possono rompere, ma per farlo bisogna conoscerle.
Cosa ti piace del tuo mestiere?
Lavoro e scatto cose che amo e mi piacciono. Mi sono specializzata in un settore che amo. L’architettura e soprattutto gli interni. Anche qui torna l’insegnamento di Gerry, bisogna specializzarsi in un ambito per eccellere. Chi fa reportage ha un approccio veloce, chi è bravo in architettura si occuperà di still life.
“Persegui l’eccellenza, in qualunque ambito lavori”, le sue parole mi suonano spesso dentro.
Amo l’architettura, gli interni, mi piace rappresentare la creazione. Non mi reputo un’artista ma una fotografa commerciale, mi piace trovare il filo del racconto attraverso la foto.
Lavoro molto per architetti e interior design e ho una clientela che mi apprezza, e questo è gratificante. Il rapporto umano è importante, anzi fondamentale.
Ultimamente però sto seguendo molto il design legato all’artigiano e spero di lavorare sempre di più in questo ambito. Poi certo il lavoro è lavoro e non sempre è tutto facile, ma nell’insieme sono soddisfatta.
Quando sono rientrata in Italia dall’Irlanda speravo di fare avanti e indietro e mantenere lavori con architetti lassù. Ma scattare in Irlanda con il tempo incerto è difficile, così mi sono concentrata sugli interni e vado in Irlanda spesso, prima del Covid andavo anche sei volte l’anno.
Quando entri in un luogo da fotografare, capisci subito cosa colpisce, da dove partire?
Ora sì… l’ho scoperto recentemente, quando ho dovuto scrivere la presentazione per una serie di conferenze che ho tenuto per l’Ordine degli Architetti.
Ho messo nero su bianco ciò che faccio con spontaneità da tempo.
Quando vedo uno spazio capisco come sarà l’inquadratura, il particolare da mettere in evidenza, l’angolo in cui la luce dovrà cadere. E poi sapendo la destinazione d’uso, se le foto sono destinate a un mensile, un sito, scatto di conseguenza. Tutte cose che ho imparato con il tempo.
All’inizio mi portavo tantissima attrezzatura, ora non più. So cosa mi serve.
Ho letto un’intervista a Luca Bigazzi, direttore della fotografia di Sorrentino, in cui raccontava come gli fosse capitato di illuminare alcune scene con luci di fortuna, prese dai cinesi.
Per me è un po’ così… non uso le luci dei cinesi ma so che spesso non è necessario avere una montagna di attrezzature per fare un ottimo lavoro. Vale l’esperienza, l’occhio, l’intuito.
I social hanno cambiato l’approccio al tuo mestiere. Oggi siamo tutti un po’ fotografi?
I social e il digitale sono un magnifico strumento di promozione, che può dare un ritorno mediatico immenso. Ma, come dicevo, sono uno strumento, e come tutti gli strumenti vanno gestiti bene, con contenuti di qualità.
Detto questo, non sono nostri, credo sia fondamentale investire su una comunicazione proprietaria: un sito, un blog, una newsletter. Qualche cosa che possiamo gestire in autonomia.
E veniamo al “siamo tutti fotografi”, diciamo che scattiamo tutti tante foto, inondiamo di foto internet, essere fotografi è un’altra cosa. Poi certo nel mare magnum di immagini che scorrono sui nostri feed ce ne sono alcune davvero belle.
Così come ci sono foto tremende, anche in settori in cui bisognerebbe investire, penso all’immobiliare, ormai grazie al cellulare si possono fare scatti magnifici, e allora sfruttiamo queste possibilità, sto proprio facendo dei corsi per questo ambito.
Tanti viaggi, tanti scatti, ma il tuo progetto del cuore?
Qui giochiamo facile. Mustras, il progetto del mio amico Fabrizio Felici, architetto che dopo aver studiato a Torino è tornato in Barbagia, una terra in cui c’è poca concorrenza e c’è tanto da costruire. Ristruttura musei, biblioteche, centri storici. Grazie alla sua associazione culturale ha dato vita a Mustras, un collettivo di designer del mediterraneo che disegnano e realizzano con gli artigiani, per svecchiare l’artigianato sardo.
Ogni pezzo viene pensato e realizzato a quattro mani, l’artigiano non è solo più un esecutore, come un tempo, ma anche creatore dell’oggetto, che sarà firmato da tutti e due.
Questo permette anche all’artigiano di avere visibilità e riconoscibilità.
Ho realizzato alcune foto, abbiamo cercato luoghi poco conosciuti per gli scatti, non il classico nuraghe ma l’architettura fascista; non la spiaggia celebre, ma la caletta sconosciuta, che pare la luna.

È un progetto a cavallo fra design, artigianato, cura delle persone e scoperta di un territorio e delle sue tradizioni e mi sta veramente molto a cuore.
Proprio in questi giorni, per il Salone del mobile, è uscito un servizio su Living che racconta Mustras, magnifico, questa cosa mi riempie di gioia.
Fabrizio, con il collega Alberto Olmo ha disegnato un tappeto, realizzato da Vilma Ghiani, selezionato all’Adi, che concorre per il Compasso d’Oro.
Le foto di quel tappeto le ho scattate in una cava, e quel giorno c’è stata una sorta di magia.

Uno dei lavoratori della cava, affascinato dal nostro lavoro, ha preso il tappeto, pesantissimo, per spostarlo e mentre lo sollevava, con fierezza e senza sforzo apparente, ho scattato la foto: un istante e l’immagine giusta era fatta.
Un luogo e un oggetto del cuore?
A Torino se penso a un luogo fotografico dico Parco Dora, un intervento incredibile, un po’ Berlino un po’ New York. Il verde, l’archeologia industriale, un parco urbano incredibile e sul fondo un’opera di Botta. Quando viene qualcuno in città lo porto sempre lì e tutti sono colpiti da questo luogo così poco sabaudo che vibra di vita.
Poi le OGR, le ho nel cuore perché studiavo lì e ci capitava, quando ancora non erano state riaperte, di scavalcare ed entrare di soppiatto in questo tempio dell’archeologia industriale.
Poi la Fata di Pianezza, di Niemeyer e per finire le Cartiere Burgo, un luogo incredibile, una perla dell’architettura in cui tutti gli studenti dovrebbero andare in processione.
Per quando riguarda gli oggetti, non mi lego alle macchine foto, amo tantissimo le creazioni degli artigiani, alcuni pezzi sono preziosi per me.
Quando faccio gli styling per le foto, se posso, uso pezzi di artisti, magari ancora poco conosciuti, mi piace aiutarli e sostenerli.

Per lavoro hai viaggiato tantissimo, ma qual è il tuo viaggio del cuore?
A parte la Sardegna, terra in cui mi piacerebbe poter avere un buen retiro, prima o poi, non sono tantissimi i paesi in cui tornerei.
Forse due. Il Giappone, dove non potrei mai vivere, l’ho trovato un luogo incredibile, il contrasto di Tokyo e Kyoto è la summa dell’ innovazione e della tradizione.
La gente è folle, stravagante e l’architettura contemporanea è di altissimo livello.
Uno dei miei sogni è di andare sull’isola di Naoshima.
E poi l’Islanda, perché non sembra di essere sulla Terra, ma su Marte.

HARPA-Reykjavík
Che consiglio daresti a un giovane che vuole iniziare il tuo mestiere?
In generale ai giovani dico: viaggiate, andate all’estero, fate un’esperienza fuori casa, cambiate aria. Fa bene, allarga la testa e gli orizzonti, fortifica. Viaggiare mette davanti alle insicurezze e arricchisce.
Vivere fuori non è sempre bello e facile, come si crede, è una sfida, lo racconta benissimo nella sua immensa ironia Checco Zalone.
Poi penso che seguire i propri sogni sia importantissimo. Mio padre mi voleva impiegata comunale, posto fisso, stipendi assicurato, in una botte di ferro.
Ho scelto una strada meno facile ma sicuramente più avventurosa, da “Barbara” come mi ha sempre indicato il mio nome.
E il suo profilo Instagram
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