Paola Pellino mi ha chiesto un piccolissimo aiuto, per equilibrare il testo del suo discorso da Iconica Torino.
Davvero piccolo, perché lei scrive bene e la storia l’aveva già tutta nel cuore.
Abbiamo solo limato un poco le frasi e scelto alcune parole giuste.
Poi mi ha generosamente permesso di pubblicare la sua storia, che è bellissima.
Racconta di passato e di futuro. Della moda che è stata e di ciò che ora possiamo fare perché gli indumenti che abbiamo nell’armadio non diventino veloce spazzatura, ma durino nel tempo.
Perché, come racconta lei “Ci sono storie che ci legano inevitabilmente a ciò che indossiamo e prolungarne la vita aiuta a preservarne il ricordo”.
Cosa trovi nell'articolo
Paola Pellino
La guardarobiera
STORIA DELLE MIE RADICI
Sono figlia di una sarta e ho vissuto la mia infanzia giocando accanto alla macchina da cucire della mia mamma, il rumore che saliva dal pedale accompagnava le mie giornate.
Vestivo solo abiti confezionati da lei, a cui cambiava colletto e polsini, rigorosamente di piquet bianco, due volte al giorno, golfini fatti a mano, camicette con colletti ricamati.
Sembra davvero un altro mondo eppure era la mia infanzia.
Da ragazza avevo un guardaroba invidiabile, mia madre acquistava regolarmente Vogue, Collezioni, Linea Italiana, e copiava i modelli delle sfilate alla perfezione, perché aveva intuito e sapeva come fare. Per i tessuti si riforniva esclusivamente da Galtrucco e Provasoli, un’istituzione cittadina.
A 8 anni è entrata in collegio dalle suore, dove ha imparato a cucire, ricamare, fare a maglia e all’uncinetto.
D’estate mia nonna la mandò a imparare il mestiere da una sartina. Le sartine (diminutivo che mia mamma mal tollerava), lavoravano in casa e prendevano in aiuto giovani apprendiste, poco più che bambine. Mia madre non era soddisfatta e insisteva per andare a lavorare in un atelier di città, dove probabilmente sarebbe diventata una “caterinetta”, così si chiamavano le giovani apprendiste che rubavano con gli occhi il mestiere negli atelier.
Purtroppo viveva in un paesino di provincia distante 40 km, per l’epoca tantissimi, ed era troppo giovane per viaggiare sola in treno, così si iscrisse a una scuola di taglio e modellistica. Quando compì quindici anni mio nonno cedette e la accompagnò per la prima volta in città, con la sua Topolino, che non aveva riscaldamento.
Il viaggio era lungo e, siccome lui lavorava come operaio in una fornace, mise due mattoni caldi avvolti in un panno, sotto i piedi di mia madre. Per tenerla al caldo.
La proprietaria dell’atelier l’avrebbe presa come lavorante, il problema erano gli orari del treno, che non combaciavano, perché l’atelier a volte chiudeva molto tardi, per le prove delle clienti e le consegne.
Mia madre iniziò così a lavorare in casa e nel frattempo, dalla merceria in cui si riforniva, venne a sapere che una sartina locale stava cercando un’aiutante. Questa sartina lavorava a sua volta per la signora Allaria, proprietaria di un’ importante sartoria di moda per bambini, che si trovava in via Roma, a Torino. Allaria vantava una clientela che annoverava i figli delle famiglie più ricche e blasonate della città.
Mia madre iniziò a lavorare per questa sartina, dopo qualche tempo questa si trasferì e chiese a mia madre di prendere il suo posto e mia madre, nemmeno a dirlo, accettò.
Così, una volta alla settimana, saliva sul treno per Torino e andava in atelier a prendere le commissioni e i tessuti.
La signora Allaria lasciava carta bianca sui modelli che mia mamma creava, ogni volta diversi, a seconda dell’ ispirazione.
Quando mia madre si sposò aveva 23 anni e una piccola clientela, che si era conquistata anche lavorando per l’atelier torinese, che lasciò dopo il matrimonio, perché io nacqui dopo poco più di 9 mesi.
Era l’inizio degli anni Sessanta, lei cuciva in casa e man mano arrivano nuove clienti, grazie al passa parola. Gli abiti da sposa erano la sua specialità. Ne realizzò di magnifici, abiti che sapevano rispecchiare la personalità delle spose.
Ricordo l’abito in stile ‘800 in voiella di lana color crema, pieno di nervature e pizzi e, al posto del classico velo, la sposa scelse una cuffia con falda tipicamente ottocentesca, o un giubbino con cappuccio e pantalone zampa d’elefante, in doppia crepe di seta bianca, per una sposa alta e magra, molto sportiva, oggi diremo androgina.
Io ovviamente sognavo a occhi aperti, ogni cliente per me era un viaggio, che partiva dalle riviste patinate, passava attraverso la scelta del modello e poi del tessuto, fino alle numerose prove; alla fine arrivava il giorno della consegna.
Sul finire degli anni Sessanta mia madre presenziò a due sfilate di Yves Saint Laurent al Casinò di Saint Vincent e lo vide! Vide Yves di persona uscire a fine sfilata per gli applausi.
Che emozione e che invidia! Ai tempi le sfilate erano accessibili, gli atelier sfilavano per presentare le collezioni.
Mia madre era sempre elegantissima e di tendenza per l’epoca. Captava subito la novità della stagione, sempre un passo avanti. A lei bastava osservare il modello per capire come andava riprodotto. Cucì moltissimo, anche per sé, fino al 1973 ,quando acquistò il primo abito confezionato, un completo di Basile, da San Carlo, che aveva inaugurato quell’anno.
La moda allora era davvero sorprendente, i grandi sarti e gli stilisti erano innovativi. Collezioni che hanno segnato la storia. Anni di creatività pura, coniugata al saper fare.
Prima della globalizzazione e della crisi, prima delle multinazionali, della corsa al fatturato, delle speculazioni finanziarie, della sovrapproduzione massificata e la conseguente scomparsa di molte realtà artigianali, che sono state il motore e la forza dell’economia italiana.
Mi piace pensare al valore di quegli abiti per lei, e non intendo valore economico, ma di crescita, di cultura, di bellezza e di grande soddisfazione, nel vedere un’ immagine mentale che prende corpo dal tessuto, tra le mani.
E ora torniamo alle caterinette, il sogno della mia mamma durante i primi passi da sartina.
STORIA DELLE CATERINETTE
All’inizio del Novecento, e fino a tutti gli anni Sessanta, uno dei metodi più comuni per imparare il mestiere di sarta era quello di entrare in atelier e imparare sul campo.
Il primo step era quello di entrare come “ piccinina” in una sartoria e rubare il mestiere con gli occhi. Le ragazzine in questione erano bambine cui venivano assegnati compiti facili e umili, come quello di raccogliere gli spilli e fare piccole commissioni.
Il secondo passaggio era quello di diventare “aiutanti” delle sarte: essere ammesse a mettere in prova i capi per le clienti.
L’ambiente di lavoro richiedeva molto impegno, le ore da passare chine sul cucito erano molte e spesso si andava ben oltre l’orario ufficiale delle sartorie, ma forniva alle giovani l’occasione per imparare, non solo l’arte del cucito, ma anche il modo di rapportarsi con clienti altolocate e molto esigenti. Insomma, una scuola di lavoro e di vita.
La carriera era lunga e le Caterinette rimanevano tali finché apprendiste, poi divenivano sarte finite e alcune, particolarmente portate, arrivavano fino alla qualifica ambitissima di première.
LE CATERINETTE
L’appellativo di Caterinetta deriva dal nome della loro patrona Santa Caterina, protettrice delle ragazze da marito.
Nell’Ottocento si diceva che “mettere la cuffia a Santa Caterina” significasse rinunciare a farsi fare l’acconciatura da sposa.
Entrare in atelier era per loro un modo per uscire di casa, imparare un mestiere ed emanciparsi; con gli avanzi dei tessuti delle clienti si confezionavano abiti eleganti e sognavano di aprire un proprio atelier o sposare un buon partito.
Gli studenti torinesi erano soliti aspettare le Caterinette a fine giornata fuori dagli atelier, per accompagnarle a passeggio sotto i portici o addirittura al Valentino. Il testo della famosa canzone popolare Piemontesina bella del 1936, parla proprio di uno studente che laureato, deve lasciare il suo amore a Torino.
Il 25 Novembre Santa Caterina, veniva indetto il famoso Ballo delle Caterinette in cui le giovani sfilavano il loro abito più bello, confezionato per l‘occasione, e veniva eletta la più elegante fra le sartine.
STORIA DEL RAMMENDO CREATIVO
La storia di mia mamma si intreccia con la mia, naturalmente l’amore per la moda ma soprattutto per la bellezza, la qualità, la manualità mi hanno portato a scoprire il rammendo creativo.
Dopo una lunga esperienza come buyer, con designers di ricerca, ho conosciuto Tom of Holland, un signore olandese maestro di rammendo visibile, che ho inviato a tenere un workshop a Castagneto Po, nel Vivaio di Anna Peyron, al quale hanno partecipato privati e designers.
In quell’occasione, non potendo partecipare concretamente, ho rubato il mestiere con gli occhi, proprio come facevano le sartine negli atelier, poi ho iniziato a studiare e praticare.
Il rammendo e il ricamo non sono altro che l’espressione di un mondo ormai rarefatto e sommerso, in molti casi purtroppo scomparso.
Sappiamo bene che il rammendo tradizionale risale alla notte dei tempi.
Nelle abitazioni le donne rammendavano indumenti e biancheria, ancora oggi ci si rivolge alle rarissime magliaie, che recuperano il filato interno al capo e lo ripristinano di modo che non sia visibile. Le suore nei conventi erano grandi esperte di rammendo e lo insegnavano alle novizie. In tempo di guerra l’esercito forniva ai soldati il kit da rammendo.
Il rammendo creativo invece è volutamente visibile, parte proprio dal buco o dallo strappo, per trasformare il capo in qualcosa di completamente nuovo, dandogli un carattere personale, unico e irripetibile.
La sua vita si prolunga nel tempo e il suo valore cambia, diventa nuovo e diverso ai nostri occhi, ci permette di recuperare così indumenti preziosi, sia da un punto di vista affettivo che materiale, perché oggi in commercio risulta sempre più difficile trovare materiali di qualità.
LE VITE DEGLI ABITI
Ci sono storie che ci legano inevitabilmente a ciò che indossiamo e prolungarne la vita aiuta a preservarne il ricordo.
Alcuni rammendi che ho eseguito hanno bellissime storie alle spalle, a volte allegre e volte tristi, comunque cariche di emozioni.
Esiste un filo sottile che unisce il rammendo creativo al ricamo, perché il risultato finale appare come un elemento decorativo, che nasce dal vuoto, dall’assenza di materia.
Per esempio la storia di questo cappotto.
STORIA DEL CAPPOTTO RECUPERATO
Un paio di anni fa mi trovavo da Marcopolo e Monica, la proprietaria, mi mostra questo cappottino in crepe di lana double, con l’etichetta Rita Gazzano Torino, uno dei tanti atelier torinesi.
Era letteralmente disseminato di minuscoli buchi prodotti dalle tarme, era invendibile, così Monica contatta la cliente perché venga a ritirarlo.
Dopo un anno Monica mi racconta che il cappotto non è mai stato ritirato, la Signora è purtroppo mancata, così me lo regala, dicendomi “fai tu”.
Prendendomi tutto il tempo necessario, con un filo di lamè dorato ho iniziato a rammendare i buchi, seguendo il percorso che le tarme avevano creato naturalmente nel tempo.
Tra le mie mani stava nascendo un piccolo firmamento e un nuovo cappotto di ottimo tessuto e fattura, tutt’ora attuale e portabile, dopo circa 60 anni. Mentre lo rammendavo immaginavo la Signora Gazzano che lo ha ideato, la sarta che lo ha realizzato e la proprietaria che lo ha indossato. Tante donne, tante storie, tutte in un cappotto di sartoria.
STORIA SULLA SOSTENIBILITÀ
Da qui si apre lo sguardo al futuro.
Ultimamente si parla molto di moda sostenibile ed è un tema importante.
Siamo letteralmente invasi da una sovrapproduzione massificata, che non ha più ragione d’essere. Una percentuale significativa della produzione dei grandi brands resta invenduta e viene così bruciata, per evitare di sminuirne l’immagine.
Fino agli anni Ottanta c’è stato un aumento produttivo costante, ma dagli anni Novanta in poi un’impennata e oggi la domanda è decisamente inferiore all’offerta.
Finalmente, da qualche tempo, molte aziende, grazie a un’ avanzata tecnologia, hanno modificato i processi produttivi. Riciclano fibre e materiali, hanno sistemi di depurazione delle acque di scarico, per esempio nel settore del denim, la cui produzione è tra le più inquinanti al mondo per i trattamenti di lavaggio e di tintura.
La qualità è oramai destinata a una nicchia di mercato sempre più ristretta, e il consumatore attento la può cercare tramite percorsi alternativi rispetto al mass market , invaso ormai da prodotti a basso costo e bassa qualità. Prodotti che generano automaticamente un consumismo sempre più veloce e inconsapevole.
COMPRO, INDOSSO, BUTTO
Stiamo assistendo a un cambiamento che è già in atto e che sta portando i primi risultati positivi, grazie anche alla sensibilizzazione che arriva dai social media, dalle manifestazioni, dalla formazione, dai movimenti e dalle associazioni.
Per contrastare l’abuso di moda spazzatura ci si può rivolgere a negozi di usato e vintage, a piccole realtà locali, laboratori di sartoria e giovani stilisti; organizzare scambi tra privati, dai divertenti swap party ai mercatini condivisi, e poi c’è sempre il noleggio.
Ma soprattutto il recupero dei capi di qualità nei nostri guardaroba è un modo per produrre a monte meno rifiuti. Ogni giorno montagne di abbigliamento dismesso, che non si riesce a smaltire del tutto, vengono trasportate in vaste zone nei paesi poveri dove giacciono per anni.
Insomma, si può fare molto, mettere in moto la creatività aiuta anche l’ambiente!
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