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Raffaella Ronchetta

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L’accoglienza è una cosa semplice, se ami le sfide

17 Giugno 2019  –  Raffaella  –  Categoria:  Fatti miei  –  Tag:  Interviste

Micaela e Marcello Badiali sono una delle 150 famiglie che ha accolto la famiglia Alabdullah, nove figli; scappati dalla guerra in Siria, vivevano  in un campo profughi in Libano. Questa la loro storia.

Tutto è nato dall’esperienza di due amici che, nell’autunno del 2016, sono andati come volontari in un campo profughi libanese, a Tel Abbas,  in collaborazione con l’associazione Operazione Colomba.  Hanno vissuto tra le tende,  con i profughi siriani. Non avevano un ruolo particolare, se non vivere con loro. Durante il periodo passato nel campo hanno conosciuto diverse famiglie e una volta tornati a casa hanno sentito forte il desiderio, quasi l’urgenza, di portare qualcuno di in Italia.

Cosa trovi nell'articolo

  • La famiglia Alabdullah
  • Così si sono messi in moto gli ingranaggi dell’accoglienza?
  • Spiegaci meglio cosa è un corridoio umanitario.
  • L’organizzazione
  • Dall’emergenza alla quotidianità
  • L’accoglienza
  • La scuola
  • La famiglia
  • La forza della rete
  • La semplicità dell’accoglienza
  • Le culture
  • Come continuerà il progetto

La famiglia Alabdullah

Nel campo c’era la famiglia di Alì e Khaldie Alabdullah, con nove figli.  Il fatto di avere nove figli rendeva il loro inserimento nei corridoi umanitari difficoltoso, praticamente impossibile. Alì e Khaldie sono rimasti nel campo per tre anni e mezzo, vedendo altre famiglie arrivare e partire, arrivare e partire. Loro no. Rimanevano al campo, pur essendo una famiglia solida, unita, con tutte le caratteristiche che li rendeva idonei alla partenza. Così, quando Tommaso e Andrea sono rientrati in Italia hanno iniziato a muoversi, a cercare aiuti e contatti per portare questa immensa famiglia in Italia. Sono andati dal parroco di Sant’Alfonso, don Davide, una persona attenta a questi problemi e lì hanno  trovato terreno fertile.

Così si sono messi in moto gli ingranaggi dell’accoglienza?

Sì. Il percorso è stato velocissimo. Molto più veloce di quanto tutti pensassero. Tommaso e Andrea sono rientrati in Italia a novembre. A gennaio c’è stata la prima riunione allargata con amici, amici di amici: è stata lanciata la proposta, si è spiegato quali fossero le necessità, si è costruita una rete di supporto. Perché di questo c’è bisogno. Di una rete. La  famiglia è poi arrivata ad aprile. Tutta l’unità pastorale nove, che ha sei Parrocchie, si è attivata.  Abbiamo trovato 150 famiglie che si sono auto tassate, con una base di 25 euro al mese, per due anni. All’inizio una delle maggiori difficoltà è stata quella di trovare una casa. Sistemare undici persone non è semplice. Abbiamo davvero avuto la sensazione che la Provvidenza c’è.

Grazie al contatto con la l’Associazione Filo d’Erba, che fa capo al Gruppo Abele, abbiamo trovato  casa.  A Rivalta di Torino, all’interno di una  cascina. Non era una casa immensa, ma adatta ad accoglierli.  Così il 27 di aprile del 2017, grazie al corridoio umanitario, la famiglia Alabdullah è arrivata in Italia.

Spiegaci meglio cosa è un corridoio umanitario.

Il corridoio umanitario è la possibilità di viaggiare in aereo, senza  prendere barconi o utilizzare vie traverse. È legale e organizzato in accordo con la Comunità di Sant’Egidio che lo sostiene attivamente,  la federazione delle Chiese Evangeliche , la Tavola Valdese e il governo italiano che ha messo a disposizione un  volo aereo, dal Libano a Roma. Siamo andati a prendere queste undici persone a Roma, con un pulmino, e da quel momento la gestione della famiglia Alabdullah ci è stata affidata interamente.

L’organizzazione

Noi ci siamo organizzati così:  il gruppo delle 150 famiglie, una segreteria, un medico  e poi  diversi sottogruppi che si dividevano i compiti. Chi si occupava dell’inserimento scolastico,  chi pensava ai trasporti, a Rivalta gli Alabdullah erano da accompagnare ovunque, chi si occupava di cercare lavori o tirocini per il papà.  Chi si occupava dell’aspetto linguistico e culturale, all’inizio non parlavano italiano e pochissimo inglese.  Chi si occupava degli studi o dei visti e dei permessi, che sono stati un calvario, ci è voluto quasi un anno e mezzo per ottenerli.

Dall’emergenza alla quotidianità

Un passo alla volta, un giorno dopo l’altro, siamo passati dalla gestione iniziale in emergenza, a una routine di vita quotidiana.  Certo, parliamo sempre di una famiglia con nove figli: la piccola  quando sono arrivati  aveva 3 anni e il più grande ne aveva 21.  Immaginiamo la gestione di queste persone, con tutti i loro problemi e le loro sfaccettature. Le esigenze, le difficoltà, il vissuto che si portavano e si portano sulle spalle, le aspettative, i desideri. Pensando ai desideri. Sono arrivati a maggio, e noi tutti, ingenuamente,  pensavamo di non  mandare a scuola i bambini, di aspettare settembre. Invece il loro più grande desiderio era andare a scuola. In una scuola vera. E così è stato. Sono andati a scuola. Poi sono stati anche inseriti negli scout.

L’accoglienza

Abbiamo trovato a Rivalta  un’accoglienza immensa, certo con luci e ombre.  Le luci molte più delle ombre. Le scuole  e le maestre sono state straordinarie, dalle insegnanti alla direttrice didattica. L’accoglienza all’interno della comunità del Filo d’Erba ideale. Gli Alabdullah occupavano un appartamento all’interno di una cascina, e poi c’erano altre famiglie, non sono mai stati soli e le altre persone che occupavano la cascina li hanno accolti, supportati, aiutati. Poi, quando abbiamo cercato una casa “vera”, tutto si è un po’ complicato. È stata una sofferenza per noi constatate quanto fosse difficile portare questa famiglia a una condizione di vita più reale. Alla messa di Natale del 2018 al Filo d’Erba proprio Don Ciotti ha fatto un appello alla comunità. E le cose si sono mosse. Abbiamo trovato casa.

La scuola

L’inserimento scolastico è andato molto bene, soprattutto per i più piccoli. I grandi hanno avuto bisogno di  un po’ di orientamento,  dovevano essere inseriti nelle scuole superiori e questo non è stato facile. Avevano una lingua da imparare, il minore dei problemi. Il problema vero era che questi ragazzi avevano perso anni di scuola. Nel campo c’è una scuola, in cui al mattino vanno i libanesi e  al pomeriggio i siriani. Vanno per qualche ora e la preparazione è a buchi. Le loro conoscenze di base hanno immense lacune. C’è chi non ha problemi, come le piccole, e chi fa più fatica. Per Houssein  c’è stato un bel progetto di accompagnamento di alternanza scuola lavoro: l’anno scorso seguiva  tre volte la settimana la scuola media,  con le materie fondamentali, e due volte la settimana la scuola professionale: adesso ha  iniziato un corso triennale  di panificatore. Il primogenito, Abdallah, che sente forte il suo ruolo,  ha imparato prestissimo l’italiano, frequenta  il Boselli, un istituto professionale per il turismo.  Vorrebbe diventare un mediatore culturale.  Ha un’ immensa voglia di imparare. Il secondo e il terzo lavorano.

La famiglia

La famiglia Alabdullah è unitissima. Inizialmente avevamo persino pensato di dividerli, di far arrivare solo i genitori con  i figli più piccoli. Non hanno voluto e penso che la loro forza sia l’essere uniti,  anche nel campo profughi, un luogo dove la quotidianità e la dignità di tutti è ai margini.  Le persone che arrivano nei campi sono persone che prima della guerra avevano una vita normale.  Alì aveva una piccola impresa, faceva il  marmista e la moglie Khaldie aveva un negozio. La guerra ha  portato via tutto, assieme ai beni hanno perso il ruolo sociale, le prospettive per un futuro diverso e migliore, per loro e per i loro figli. Anche i libanesi fanno fatica ad accettare questa situazione: un paese molto piccolo, di 4 milioni di persone, accogliere 1 milione e mezzo di  profughi. Un amico volontario di operazione Colomba, che va regolarmente giù, ci porta racconti terribili. E ancora non si sa come questa situazione evolverà. Aleppo è una città morta.  I siriani sono un popolo sospeso fra la guerra e i campi profughi. Al momento i corridoi umanitari sono stati una bellissima opportunità, che va però via via riducendosi.

Poi c’è la vita qui. Non sempre così facile. Soprattutto per gli adulti. I bambini e i ragazzini si sono integrati molto bene, parlano l’italiano, hanno la loro socialità. I ragazzi più grandi lavorano, e questo è importantissimo.  Per i genitori è molto più difficile. La mamma si occupa della casa e dei ragazzi, il papà per ora ha fatto diversi tirocini, senza lavoro, fatica ancora a parlare italiano. La piena integrazione ci sarà solo quando avrà un vero lavoro. Il trasloco nella nuova casa ha segnato un  nuovo passaggio: l’hanno arredata con oggetti che ricordano la loro cultura e la loro storia. Un altro piccolo passo.

La forza della rete

 

Il lavoro è stato tantissimo ma  la forza di questo progetto, che si chiama “Per chi ama le sfide”,  è quella di essere in tanti e di credere fortemente in ciò che facciamo. Abbiamo organizzato tantissime iniziative, per informare, fare raccolta fondi, festeggiare, stare assieme. Il problema non sono mai stati i soldi.  Si sono creati legami molto forti, di amicizia e collaborazione.  Andrea Gallo  e Tommaso Panero, che sono stati il motore di tutto, hanno dedicato energie e  tempo al progetto e questo ha dato una marcia in più.

La semplicità dell’accoglienza

In fondo queste sono esperienze molto semplici.  È  tutto facile quando si è in tanti a crederci, in tanti a spendersi ad affrontare le difficoltà, i problemi.  Che ci sono stati, inutile negarlo. Eppure dalla nostra esperienza sono nate finora almeno altre due storie di accoglienza. Ci sono stati momenti bellissimi. L’arrivo, ancora adesso se ci penso mi si rompe la voce. Un’emozione immensa, da parte di tutti. Gli Alabdullah erano provati, stanchi del viaggio, eppure da subito ci hanno detto che questa accoglienza era la loro speranza, per i figli, per il futuro. Inizialmente venivano intervistati spesso e non smettevano mai di ringraziare. Siamo noi a dover ringraziare loro, perché ci hanno fornito l’occasione di restituire un pochino di quello che abbiamo ricevuto dalla vita. Alessandro Ciquera, volontario di Operazione Colomba, in un incontro ci ha detto “portatelo avanti questo progetto,  credeteci, perché avete l’occasione di cambiare la vita di tante  persone”.

È una goccia quello che abbiamo fatto. In Libano, in Siria, quante persone vivono così. Donne, bambini, padri di famiglia. Fra le tende di plastica e cartone, senza prospettive, senza speranze, senza un domani.

Le culture

Questa esperienza è stata  anche un incontro di culture, tante cose della loro vita, del loro modo di vivere,  io non le  conoscevo.  Ho visto gesti che, pur nel rispetto delle differenti culture, abbattono barriere, pregiudizi. Avvicinano le persone. Il loro ingresso in Chiesa  al rosario per il papà di Don Davide. La festa per la fine del Ramadan. Le cene, le gite, i caffè attorno al tavolo. La raccolta differenziata, difficilissima da applicare. Piccoli incontri.  A loro  manca tanto la Siria di prima della guerra, gli amici, la famiglia. Un mondo che non c’è più.

Come continuerà il progetto

Per ora gli Alabdullah hanno ancora bisogno di supporto per la scuola,  economicamente e anche per cercare un lavoro. Quando saranno autonomi ci piacerebbe poter accogliere un’altra famiglia. Stiamo aiutando economicamente la famiglia del fratello di Ali, gli mandiamo un po’ di soldi ogni mese, in modo che possa passare l’inverno in una casetta e non in una tenda.  Vorremo sostenere un’associazione che si chiama Medici fra le tende, un gruppo di medici italiani che va al campo una volta al mese,  e anche la scuola del campo.

Ci piacerebbe che Alì trovasse un lavoro, che Khaldie potesse trovare un’occupazione,  organizzare feste in cui cucina,  farla conoscere ad altre donne siriane. Tanti progetti, tanti sogni, tanti desideri: un passo alla volta.

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Raffaella Ronchetta

Giornalista e consulente di comunicazione.

Aiuto le associazioni, le aziende, le persone a gestire la propria comunicazione e quella dei propri prodotti attraverso attività di ufficio stampa e digital pr, costruendo una strategia di comunicazione “su misura”.

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